venerdì 17 novembre 2017

Lunga vita agli onesti?

Io non avrei nemmeno dato la notizia della morte del boss dei boss.
Figurarsi le prime pagine dei giornali.
E non sono nemmeno riuscita a trovare un titolo giusto....
Forse sarebbe meglio LA LUNGA VITA DEGLI ONESTI?...
Intendendo l'augurio come rivolto alla "categoria" e non ai "singoli", visto che, come si nota proprio in questo caso, a morire vecchi non sono certo loro......

E allora, ecco:
Apologo sull’onestà nel paese dei corrotti di Italo Calvino

C’era un paese che si reggeva sull’illecito. Non che mancassero le leggi, né che il sistema politico non fosse basato su principi che tutti più o meno dicevano di condividere. Ma questo sistema, articolato su un gran numero di centri di potere, aveva bisogno di mezzi finanziari smisurati (ne aveva bisogno perché quando ci si abitua a disporre di molti soldi non si è più capaci di concepire la vita in altro modo) e questi mezzi si potevano avere solo illecitamente cioè chiedendoli a chi li aveva, in cambio di favori illeciti. Ossia, chi poteva dar soldi in cambio di favori in genere già aveva fatto questi soldi mediante favori ottenuti in precedenza; per cui ne risultava un sistema economico in qualche modo circolare e non privo d’una sua armonia.
Nel finanziarsi per via illecita, ogni centro di potere non era sfiorato da alcun senso di colpa, perché per la propria morale interna ciò che era fatto nell’interesse del gruppo era lecito; anzi, benemerito: in quanto ogni gruppo identificava il proprio potere col bene comune; l’illegalità formale quindi non escludeva una superiore legalità sostanziale. Vero è che in ogni transizione illecita a favore di entità collettive è usanza che una quota parte resti in mano di singoli individui, come equa ricompensa delle indispensabili prestazioni di procacciamento e
mediazione: quindi l’illecito che per la morale interna del gruppo era lecito, portava con se una frangia di illecito anche per quella morale. Ma a guardar bene il privato che si trovava a intascare la sua tangente individuale sulla tangente collettiva, era sicuro d’aver fatto agire il proprio tornaconto individuale in favore del tornaconto collettivo, cioè poteva senza ipocrisia convincersi che la sua condotta era non solo lecita ma benemerita.
Il paese aveva nello stesso tempo anche un dispendioso bilancio ufficiale alimentato dalle imposte su ogni attività lecita, e finanziava lecitamente tutti coloro che lecitamente o illecitamente riuscivano a farsi finanziare. Perché in quel paese nessuno era disposto non diciamo a fare bancarotta ma neppure a rimetterci di suo ( e non si vede in nome di che cosa si sarebbe potuto pretendere che qualcuno ci rimettesse) la finanza pubblica serviva a integrare lecitamente in nome del bene comune i disavanzi delle attività che sempre in nome del bene comune s’erano distinte per via illecita. La riscossione delle tasse che in altre epoche e civiltà poteva ambire di far leva sul dovere civico, qui ritornava alla sua schietta sostanza d’atto di forza (così come in certe località all’esazione da parte dello stato s’aggiungeva quella d’organizzazioni gangsteristiche o mafiose), atto di forza cui il contribuente sottostava per evitare guai maggiori pur provando anziché il sollievo della coscienza a posto la sensazione sgradevole d’una complicità passiva con la cattiva amministrazione della cosa pubblica e con il privilegio delle attività illecite, normalmente esentate da ogni imposta.
Di tanto in tanto, quando meno ce lo si aspettava, un tribunale decideva d’applicare le leggi, provocando piccoli terremoti in qualche centro di potere e anche arresti di persone che avevano avuto fino a allora le loro ragioni per considerarsi impunibili. In quei casi il sentimento dominante, anziché la soddisfazione per la rivincita della giustizia, era il sospetto che si trattasse d’un regolamento di conti d’un centro di potere contro un altro centro di potere.
Cosicché era difficile stabilire se le leggi fossero usabili ormai soltanto come armi tattiche e strategiche nelle battaglie intestine tra interessi illeciti, oppure se i tribunali per legittimare i loro compiti istituzionali dovessero accreditare l’idea che anche loro erano dei centri di potere e d’interessi illeciti come tutti gli altri.
Naturalmente una tale situazione era propizia anche per le associazioni a delinquere di tipo tradizionale che coi sequestri di persona e gli svaligiamenti di banche (e tante altre attività più modeste fino allo scippo in motoretta) s’inserivano come un elemento d’imprevedibilità nella giostra dei miliardi, facendone deviare il flusso verso percorsi sotterranei, da cui prima o poi certo riemergevano in mille forme inaspettate di finanza lecita o illecita.
In opposizione al sistema guadagnavano terreno le organizzazioni del terrore che, usando quegli stessi metodi di finanziamento della tradizione fuorilegge, e con un ben dosato stillicidio d’ammazzamenti distribuiti tra tutte le categorie di cittadini, illustri e oscuri, si proponevano come l’unica alternativa globale al sistema. Ma il loro vero effetto sul sistema era quello di rafforzarlo fino a diventarne il puntello indispensabile, confermandone la convinzione d’essere il migliore sistema possibile e di non dover cambiare in nulla.
Così tutte le forme d’illecito, da quelle più sornione a quelle più feroci si saldavano in un sistema che aveva una sua stabilità e compattezza e coerenza e nel quale moltissime persone potevano trovare il loro vantaggio pratico senza perdere il vantaggio morale di sentirsi con la coscienza a posto. Avrebbero potuto dunque dirsi unanimemente felici, gli abitanti di quel paese, non fosse stato per una pur sempre numerosa categoria di cittadini cui non si sapeva quale ruolo attribuire: gli onesti.
Erano costoro onesti non per qualche speciale ragione ( non potevano richiamarsi a grandi principi, né patriottici né sociali né religiosi, che non avevano più corso), erano onesti per abitudine mentale, condizionamento caratteriale, tic nervoso. Insomma non potevano farci niente se erano così, se le cose che stavano loro a cuore non erano direttamente valutabili in denaro, se la loro testa funzionava sempre in base a quei vieti meccanismi che collegano il guadagno col lavoro, la stima al merito, la soddisfazione propria alla soddisfazione d’altre persone. In quel paese di gente che si sentiva sempre con la coscienza a posto loro erano i soli a farsi sempre degli scrupoli, a chiedersi ogni momento cosa avrebbero dovuto fare. Sapevano che fare la morale agli altri, indignarsi, predicare la virtù sono cose che trovano troppo facilmente l’approvazione di tutti, in buona o in malafede. Il potere non lo trovavano abbastanza interessante per sognarlo per sé (almeno quel potere che interessava agli altri); non si facevano illusioni che in altri paesi non ci fossero le stesse magagne, anche se tenute più nascoste; in una società migliore non speravano perché sapevano che il peggio è sempre più probabile.
Dovevano rassegnarsi all’estinzione? No, la loro consolazione era pensare che così come in margine a tutte le società durante millenni s’era perpetuata una controsocietà di malandrini, di tagliaborse, di ladruncoli, di gabbamondo, una controsocietà che non aveva mai avuto nessuna pretesa di diventare la società , ma solo di sopravvivere nelle pieghe della società dominante e affermare il proprio modo d’esistere a dispetto dei principi consacrati, e per questo aveva dato di sé (almeno se vista non troppo da vicino) un’immagine libera e vitale, così la controsocietà degli onesti forse sarebbe riuscita a persistere ancora per secoli, in margine al costume corrente, senza altra pretesa che di vivere la propria diversità, di sentirsi dissimile da tutto il resto, e a questo modo magari avrebbe finito per significare qualcosa d’essenziale per tutti, per essere immagine di qualcosa che le parole non sanno più dire, di qualcosa che non è stato ancora detto e ancora non sappiamo cos’è.







Tratto da Romanzi e racconti – volume 3°, Racconti e apologhi sparsi, i Meridiani, Arnoldo Mondadori editore. Uscito su la Repubblica, 15 marzo 1980, col titolo “Apologo sull’onestà nel paese dei corrotti”.




lunedì 19 giugno 2017

"Ad Parnassum" di PAUL KLEE (... amatissimo ...)


18 giugno 2017

18 giugno 2017

A tutti gli amici che ieri mi hanno accompagnato nel giorno del mio compleanno, grazie.
Grazie di cuore.
Mi aspettavo questa volta una ricorrenza triste: pensavo infatti da giorni a tutti quelli che ho amato, ma che non sarebbero stati più con me.
E invece ho trovato quelli che sono con me. Dagli affetti più intimi agli amici, vecchi e nuovi, di vita vicina o di affinità anche lontane ….
Grazie.


venerdì 19 maggio 2017


E se non puoi la vita che desideri
E se non puoi la vita che desideri
cerca almeno questo
per quanto sta in te: non sciuparla
nel troppo commercio con la gente
con troppe parole in un viavai frenetico.
Non sciuparla portandola in giro
in balìa del quotidiano
gioco balordo degli incontri
e degli inviti,
fino a farne una stucchevole estranea.
Constantinos Kavafis


lunedì 8 maggio 2017


Ancora su Più di un giardino

Mi è stato chiesto perché questo blog si chiami Più di un giardino. Me lo sono chiesto anch’io, in verità, e ho cercato di rispondere ( e di rispondermi) con il primo post qui pubblicato. Infatti questo nome è venuto “su” da dentro di me senza una spiegazione immediata:  mi sono quindi ritrovata a cercare, sempre dentro di me, delle motivazioni che me lo facessero comprendere e accogliere come davvero “mio”.
A quella prima consapevolezza, adesso, qualcosa si aggiunge.
L’idea di un giardino mi ha avvicinato a mio cugino Giancarlo  e al suo lavoro di geologo ambientale e, direi, anche di geofilosofo e geopoeta. Sul suo sito www.sublimes.it potete trovare delle vere meraviglie di conoscenza comprensione ascolto attenzione poesia.
Avevamo progettato un percorso comune di cammini e pensiero da proporre a chi volesse vedere, ascoltare, ascoltarsi.
Giancarlo è morto venerdì 28 aprile mentre esplorava un luogo difficile e affascinante in Tuscia, terra che lo aveva come rapito.
Sento di voler continuare il mio viaggio.
In tutti i giardini.
E, con me, tutti quelli che amo.


domenica 12 marzo 2017

LOTTO MARZO

LOTTO MARZO
Ancora sulla Festa della Donna.
Non mi definisco (più?) “femminista”, ma per qualche giorno sì, lo sono stata, e ho partecipato allo sciopero. E’ andata così: mi sono ritrovata molto arrabbiata, forse per la losca vicenda dei ginecologi obiettori, e ho scoperto che il mondo intero lo era! E per chi sa quanti altri turpissimi motivi, oltre al primo fra tutti: il persistere/prosperare della violenza maschile. Tanto arrabbiati da proporre uno sciopero mondiale. Ovviamente molto criticato, in virtù di quegli argomenti già triti se li si riserva alle manifestazioni storiche operaie, figuriamoci per un tale evento  globale (gli scioperi sono inutili, … sono fatti in nome della libertà e intanto limitano la libertà di chi li subisce …..) E, da non credere, sul Corriere della Sera, per tali argomenti si sono scomodate (uniche voci femminili) Valeria Fedeli, neoministra “dalla terza media” e Paola Binetti, integralista cattolica. Anzi, clericale.
Ok, lascio perdere: qui si scivola nella politica e la politica divide. Volevo solo dire che mi si è riproposto in tutta la sua importanza il problema della vita delle donne, delle differenze di genere, del senso del “femminile”…… Aiuto!

Non mancherà il tempo per sostare anche in questo, di giardino, ma un primo, impetuoso, stimolo mi ha inaspettatamente emozionato: sono questi due articoli dal sito di D. La Repubblica che solo qualche tempo fa davvero non avrei trovato interessanti …. Li propongo.


Grande sorella
Le religiose cattoliche vogliono cambiare la Chiesa e il mondo. Poche, ma istruite e smart, si addestrano a sfidare la globalizzazione ingiusta e la gerarchia patriarcale. Passa da loro il femminismo più visionario?
LEGGI ANCHE: TERESA LA RIBELLE. INTERVISTA A SUOR TERESA FORCADES
DI ELISABETTA MURITTI E GLORIA RIVA, FOTO DI IBOLYA FEHER
Sono poche le cose che un pontefice non sa, recita un detto vaticano. Quanti soldi hanno i salesiani. Quante persone lavorano in Vaticano (dipende). Che cosa pensa un gesuita. Quanti tipi di suore ci sono. All’ultimo quesito in effetti è difficile rispondere. Anche se qualche numero oggi c’è. Nel mondo le monache cattoliche di clausura, “censite” dalla nuova Costituzione Apostolica, sono 44mila in 4mila monasteri: dal 2000 al 2014 le professe solenni (voti definitivi) degli antichi ordini religiosi, come benedettine e clarisse, sono passate da 48.834 a 38.773, mentre le professe semplici delle congregazioni religiose di più recente istituzione, da 3.819 a 2.817; le novizie, da 2.426 a 1.758. Le suore professe sono, per l’Annuarium Statisticum Ecclesiae 2014, 682.729 (-10,2% dal 2005). Le religiose italiane sono diminuite, dal 2002 al 2012, da 108.175 a 86.431; la loro età media va verso il 46% di ultrasettantenni.  Tra invecchiamento demografico, debolezza delle vocazioni, ampia gamma di possibili realizzazioni personali, nubilato appagante e scarso appeal delle gerarchie ecclesiastiche, i dati si spiegano da soli. Però oscurano un piccolo sommovimento nelle coscienze. Essere suora, oggi, sta diventando una scelta speciale. Per niente anacronistica. Rivoluzionaria. Elitaria. Orgogliosamente minoritaria: meglio poche ma buone, raccomanda papa Francesco, contrario al proselitismo ansioso, alla “caccia alla novizia” nei paesi poveri, al marketing conventuale online, allo sfruttamento di manodopera femminile gratuita. Di più: meglio poche ma buone, istruite, toste e specializzate. Detto questo, ecco che i numeri, pur piccoli, diventano preziosi. Nell’anglicana Gran Bretagna stanno pian piano crescendo gli ingressi negli ordini cattolici. Spesso si tratta di trentenni laureate in conflitto con una società tecnologica, sessualizzata e arida, che in convento entrano solo di sera, dopo aver lavorato. I titoli di studio sfoggiati dalle contemplative del monastero domenicano di Our Lady of the Rosary, nel New Jersey, hanno incuriosito il New York Times. «Oggi il cattolicesimo è cool», dice Shanna Johnson, studentessa di Giornalismo di Chicago, che da ragazza è stata buddhista. Dell’affermazione clamorosa non si stupisce l’italiana Lucetta Scaraffia, storica, autrice del saggio Dall’ultimo banco. La Chiesa, le donne, il sinodo (Marsilio), di successo pure in Spagna, Francia e, sì, negli Usa, nonché direttore di Donne Chiesa Mondo, mensile femminile allegato all’Osservatore Romano (ugualmente tradotto, e diffuso/rilanciato online, in tre lingue). Ma contestualizza con ironia: «Forse è l’attrazione per l’esotico tipica del mondo protestante. Si sa, noi cattolici abbiamo sempre qualche zia suora in famiglia... O è il nuovo bisogno di regole severe, antiche». Avere studiato dalle suore cattoliche aiuta le ragazze «a focalizzarsi, a cercare buoni mentori e sponsor, a intuire il talento tenendo a bada le aspettative troppo elevate e l’ego, insomma, a eccellere nel lavoro», aggiunge poi l’americana Jo Piazza, editorialista per Forbes e Wall Street Journal, autrice del bestseller If Nuns Ruled the World (“Se le suore governassero il mondo”), che ha fatto sperare nell’ennesima eroina salva-umanità: La Supersuora). Scaraffia è più concreta: «Le suore stanno risolvendo il vero problema di oggi. Che non è la secolarizzazione, ma l’impegno poco “resistente” delle nuove generazioni, adatte alla vita estrema e all’adrenalina più che alla testimonianza durevole nelle zone calde del pianeta e della modernità». Aggiunge: «Suor Eugenia Bonetti, 78enne, zoppa, 24 anni in Africa, esperta di trafficking sessuale e fondatrice dell’associazione Slaves No More, vive a Roma e passa la notte sulla Salaria a parlare e pregare con le prostitute keniote, a sfidare i magnaccia con più coraggio di un poliziotto, ad accusare i “nostri” maschi, preti compresi, di approfittare delle nuove schiavitù. Contro cui occorre una missione globale». E cita anche le religiose congolesi che spiegano all’Occidente che cos’è veramente lo stupro di guerra (disgrega una comunità per occuparne i terreni ricchi di minerali, utili alla fabbricazione di computer), e quelle pakistane che aiutano le ragazze indù e cristiane a scappare dai musulmani che le hanno rapite. Oggi accettare una missione globale contempla la ricerca di nuovi criteri di equità. Lo sa Alessandra Smerilli: c’è chi la chiama “professoressa”, chi “Suor” e chi “Suor-professoressa”, che suona buffo. E lei, che effettivamente è sia un’economista sia una salesiana, ride e poi riflette: «Abbiamo perso contatto con la storia dell’Europa, fatta di medici, professori e artisti che erano anche religiosi. Oggi la nostra società, spiritualmente impoverita, fatica a capire il significato civile di frati e suore: perché la charis (il dono gratuito dei religiosi) è faccenda eminentemente civile». È un pensiero fine quello di Alessandra: nata a Chieti 43 anni fa e che fin dai tempi del liceo scientifico sapeva che da grande avrebbe indossato il velo. «Mi vedevo nelle periferie o in una comunità di giovani. Invece una superiora mi disse che l’economia sarebbe diventata il centro del mondo». Era il 1996 e la Madre Superiora ci aveva visto giusto. Alessandra, che stava studiando il voto d’obbedienza, a malincuore ha detto sì. Poi sono arrivati i primi 30 e lode e ci ha preso gusto: nel 2006 un dottorato di ricerca alla Sapienza di Roma, nel 2014 un PhD all’East Anglia, Inghilterra. Oggi insegna alla Pontificia Università di Scienze dell’educazione Auxilium, alla Lumsa di Roma e alla Cattolica di Milano. Ed è membro del comitato di Banca Etica. «Mi occupo di We Rationality, “razionalità del noi”, di comportamenti cooperativi in economia. L’imprenditore non è chi genera ricchezza, ma chi ha un progetto e s’impegna a portarlo a termine. Tutt’altra questione è l’idolatria del profitto». Il nesso fra religiosità ed economia? «Papa Francesco ha detto che il mondo sta cambiando, e che dobbiamo restare fedeli a noi stessi cambiando insieme a lui. Un tempo la vita consacrata era percepita per i servizi che offriva, dalle scuole agli ospedali. Oggi non è più così, non è un compito da svolgere, è il dono di occhi che vedono cose belle dove altri vedono solo un problema. Per scorgere il nuovo, dove altri neppure s’interrogano». Luca Diotallevi, docente di Sociologia e direttore del master in Scienze della cultura e della religione (Università Roma Tre), conferma il cauto, singolare “risveglio”: «Si sommano tre piccoli trend: la gravissima crisi degli ordini di vita attiva (quelli che si occupano di malati, poveri, scolari, come prima rimarcava Suor Alessandra, ndr), che non sono più fonte di emancipazione, anzi, sopportano a fatica la gerarchia ecclesiastica; un inedito, modesto ma significativo interesse per la religiosità; una piccola ripresa della vita claustrale. Osservazioni che non servono a calcolare numericamente un fenomeno, ma a sottolineare la vitalità delle fondazioni diocesane post Concilio Vaticano II e l’attenzione della Chiesa verso una trasformazione sociale. Che stavolta è fatta di scelte fortemente intenzionali e individuali, di donne libere, dotate di ottimi titoli di studio». Continua Diotallevi: «Il cambiamento non sta tanto nell’elezione di Francesco quanto nella rinuncia di Benedetto XVI. Che va letta come la fine della cristianità del ventesimo secolo. Siamo nella trasformazione globale, e anche il cristianesimo si riforma, attingendo alla libertà delle donne e contribuendo alla crisi del maschilismo. Le vocazioni femminili non obbediscono più a convenienze sociali e psicologiche, ma esprimono pensieri avanzati».
Per esempio, su famiglia e sessualità suore e monache reclamano un punto di vista che va ascoltato. Scuote la testa Scaraffia: «Rischiano di continuare a fare le serve ai preti, sono spesso trattate da sceme. Sono stufe. Resto però contraria al sacerdozio femminile, e anche al diaconato, perché diaconesse, e dunque collaboratrici apostoliche, suore e monache lo sono da sempre nell’esercizio della loro missione. Mi piace la loro libertà, senza corso di studi e patentini. Mi piace pure la loro rabbia: il sacerdozio non c’entra, semmai c’è una forte antipatia per il clero. Loro, dei preti non si fidano».
«Una generazione moderna di cattolici deve saper costruire qualcosa di nuovo: e la prospettiva dell’ordinazione femminile è invece organica al vecchio mondo clericale che sta finendo. Il sacerdozio è servizio, non è potere», precisa Diotallevi. Già, ma a Teresa Forcades (vedi intervista), benedettina barcellonese autrice di libri rumorosi (Siamo tutti diversi! Per una teologia queer, Castelvecchi), laureata in Teologia e Medicina e dispensata dal convento per la causa catalana, tutto ciò non basterebbe: suor Teresa è favorevole al sacerdozio delle donne, al matrimonio omosessuale e all’identità “viaggiante” di ciascuno di noi... Come forse non basterebbe alle suore Usa, censurate qualche anno fa dal Vaticano per le posizioni poco ortodosse in fatto di femminismo e uguaglianza sociale, ma forse, dicono, anche per l’appoggio all’Obamacare (punto cruciale: prevedeva accessi più facili alla contraccezione). Le sorelle a stelle e strisce sono state poi “perdonate”. E sulla querelle è stato girato il documentario Radical Grace, prodotto da Susan Sarandon.

BANDO AGLI STEREOTIPI
Suor Alessandra Smerilli, nel libro Suore, tra stereotipi e realtà (ed. Città Nuova), racconta le frasi più “pop” che una religiosa si sente dire. E contrattacca.
 … Non le viene mai voglia di avere un marito, una famiglia? Credo che sia come chiedere a una moglie se non ha mai la tentazione di tradire il marito. Le crisi fanno parte della vita, di ogni tipo di vita. Solo chi non sceglie non può avere tentazione di cambiare percorso. Suora, beata lei, che vive una vita tranquilla, vicino a Dio. Signora, quando dormo per tre giorni di seguito nello stesso posto sono molto felice, perché non mi capita spesso. Suora, preghi per me, perché, lei, il Signore l’ascolta. Non credo che il Signore ascolti me più di una qualsiasi altra persona. La preghiera dell’umile perfora le nubi e non c’è una corsia preferenziale per le suore. Ma siete persone normali! Come se ci si aspettasse che le suore fossero esseri strani. Avete sempre gli stessi orari? Normalmente sì, ma gli orari sono fatti per garantire i tempi di preghiera e lavoro in vista della missione, per cui se la missione ce lo chiede, non abbiamo problemi a cambiare le abitudini. Avete la tivù? Ne abbiamo una per tutte. Quando c’è qualche programma interessante lo segnaliamo, e chi vuole lo vede. Andate in vacanza! Le nostre regole sono molto sagge nell’indicarci l’opportunità di avere tempi di distensione, da alternare al lavoro. Un periodo di riposo durante l’anno fa bene al corpo e allo spirito. Naturalmente le nostre sono vacanze sobrie, vissute in altre case religiose o con i parenti: lo scopo è riposarsi, non viaggiare. State sempre nella stessa comunità? Io ho già cambiato due comunità e ogni anno sono pronta a muovermi di nuovo. Questi cambiamenti riservano la loro dose di sofferenza, ma ci ricordano che la nostra vita è in movimento. Come la prendono i genitori? Tendenzialmente male.
Ho visto compagne le cui mamme minacciavano il suicidio. E famiglie che non hanno mai fatto visita alla figlia. Capita che una suora ci ripensi? Tante le compagne di viaggio che ho visto andare via. Alcune nel periodo di formazione, o perché scelgono un istituto non adatto o, pur sentendosi chiamate, perché non riescono ad andare fino in fondo. Altre lasciano dopo la professione perpetua, perché si innamorano di qualcuno, e questo capita a ogni età, o per esasperazione: la vita di comunità è davvero difficile.
Il fatto che qualcuno se ne vada è il segno che ogni vita è un mistero….


Teresa la ribelle
Intervista a suor Teresa Forcades. La teologa benedettina cinquantenne, nata nella Barcellona più popolare e "atea", stupisce le donne per il suo pensiero controcorrente
LEGGI ANCHE: GRANDE SORELLA. LE RELIGIOSE CATTOLICHE VOGLIONO CAMBIARE LA CHIESA E IL MONDO
DI ELISABETTA MURITTI E GLORIA RIVA. TRADUZIONE DI CRISTINA GUARNIERI. FOTO DI IBOLYA FEHER
C’è una piccola ripresa di vocazioni femminili...
«In Spagna assistiamo a vocazioni tardive di donne istruite e indipendenti. E vocazioni di adolescenti, che entrano in monastero appena finito il liceo. I due casi vanno distinti con chiarezza. Sulle ragazze può pesare l’influenza di personalità carismatiche e movimenti (come quello neocatecumenale) che guardano al mondo secolare con superiorità e fanno della Chiesa (e degli affiliati) l’ avamposto di una crociata morale. Nelle vocazioni tardive come la mia (28 anni, in monastero a 30) coesistono varie ragioni, ma non c’è paura del mondo. Semmai la ricerca di uno spazio di libertà, a partire dal quale aiutare coloro che più soffrono e lottare contro l’ingiustizia».
Il Vaticano ha condotto una visita apostolica per indagare l’ortodossia delle suore Usa.
«Le religiose della Lcwr (Leadership Conference of Women Religious) rappresentano l’80% delle 56mila religiose Usa. Il modo in cui hanno risposto alla visita del cardinal Rodé è stato esemplare: hanno praticato “la resistenza costruttiva”, ovvero anziché cedere o opporsi hanno colto l’occasione per approfondire la comprensione di sé e della Chiesa, nonché i legami che uniscono le diverse comunità. Questo atteggiamento, né prepotente né sottomesso, è il principale contributo teorico che già offrono molti ordini femminili. E poi ci sono i contributi concreti: da anni molte suore rivedono storia e teologia a partire dalla prospettiva dell’uguaglianza di genere. Elisabeth Johnson esplora l’immaginario e il linguaggio femminili e la relazione tra teologia ed ecologia; Ivone Gebara è una teologa della liberazione, impegnata contro l’ingiustizia; Margaret Farley difende una teologia morale che separi la sessualità dal peccato e dalla colpa. Oggi è fondamentale una teologia queer: pensare la diversità sessuale a partire dalla prospettiva teologica e, da lì, sviluppare un’antropologia che promuova l’originalità di ciascun essere umano e della sua libertà. In prospettiva comunitaria: non si tratta di fortificare l’individualismo capitalista, bensì la solidarietà che ci fa felici. Sì, ho fiducia in questo momento vissuto dalla Chiesa, non tanto perché io speri in una soluzione da Papa Francesco, ma perché mi aspetto che lui lasci spazio alle proposte che vengono dal basso, dai margini».
Papa Francesco ha limitato il web nei monasteri.
«Raccomandare alle religiose contemplative e non ai religiosi contemplativi di limitare l’uso dei social network riflette un pregiudizio sessista ancora imperante nella Chiesa cattolica romana. Nel mio monastero il fatto non ha suscitato cambiamenti: si continuano a usare i social e si cerca come sempre di farne un uso responsabile».
A proposito di una teologia cattolica femminista: che cosa c’è all’orizzonte? Il sacerdozio femminile? La riformulazione della castità e dell’identità sessuale?
«C’è la coscienza che “il problema delle donne” non è stato ancora superato nella Chiesa e neppure nella società del XXI secolo. Nell’Europa del 2015 le donne percepiscono il 16% in meno dei salari rispetto agli uomini, a parità di lavoro: da qui viene tutto il resto. In che modo teologia e prassi ecclesiale continuano a contribuire allo sfruttamento delle donne? Perché la loro esclusione dalla rappresentatività liturgica e dal governo della Chiesa è ancora giustificata?».
Che cosa pensa del nuovo sessismo?
«La maggior parte delle donne, soprattutto se giovani, si sentono “donne” e diverse dall’“uomo”. Questa diversità di genere la sentono attraente; e non accettano che l’uomo o la società impongano loro qualcosa, come passare da un lavoro remunerato a uno non remunerato o vestirsi in un certo modo. Ma, eliminata l’imposizione, ci sono lo stesso molte donne che lasciano il lavoro dopo la nascita del primo figlio o si vestono sexy, anche se ciò implica scarpe fastidiose e chirurgia estetica. Credo, però, che tale modello patriarcale non sia la società che gli uomini impongono alle donne, bensì quella che uomini e donne costruiscono
 insieme quando non hanno il coraggio di essere queer, di sviluppare ognuno la propria originalità».
Ritornerà in convento?
«Il permesso di esclaustrazione finirà nell’agosto 2018. È mia intenzione rispettarlo».
(09 MARZO 2017)


lunedì 6 marzo 2017

Perché un “giardino”?
Il “giardino” che dà nome al mio blog viene da lontano.
La filosofia del "giardino" è la dottrina filosofica di Epicuro,  e deriva dal luogo, una casa con giardino appena fuori da Atene, dove egli dal 306 a.C. impartiva lezioni ai suoi discepoli.
Ma il “giardino”  è anche il campo del nostro essere dove aver cura dei semi buoni e ignorare quelli cattivi, semplice verità che ci viene donata dal buddismo.
E infine, il “giardino”  non è altro che quel “giardino segreto” (protagonista di uno dei più bei libri della letteratura mondiale, pur classificato come libro per ragazzi) che palpita dentro di noi, di cui trovare la chiave d’accesso per entrarvi in un chiaro giorno di luce. Come ci direbbe, con ben altre parole, Carl Gustav Jung.
Queste,dunque, per me, le strade maestre percorse per conoscere e vivere: la filosofia, l’Oriente, la letteratura, la psicologia.